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          Con la conquista romana la viticoltura conobbe la sua massima diffusione 
        in tutta Europa. In età romana il vino era prodotto in enormi quantità, 
        era venduto nei thermopolia (locali pubblici) ed era consumato 
        da ogni fascia di popolazione. Vi furono anche fenomeni di sovrapproduzione: 
        alla fine del I sec. d.C. l’imperatore Domiziano dovette imporre 
        ai contadini, con un editto, di sradicare metà delle vigne nelle 
        province per garantire in questo modo il monopolio della penisola italiana. 
        Rilevante era l’esportazione, tanto che il porto di Ostia divenne 
        un vero emporio vinario. 
            |  Raffigurazione in pietra di una nave romana che trasportava vino.
			  Museo regionale renano (Rheinisches Landesmuseum), Treviri, Germania.
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 Per impiantare i vigneti si sceglievano con cura i vitigni in rapporto 
        al tipo di terreno, al clima, all'altitudine e all'esposizione 
        ai venti. La vendemmia e la preparazione del vino avvenivano, inoltre, 
        con rituali e pratiche ben precise: vi era, per esempio, un giorno esatto 
        in cui si doveva iniziare la vendemmia e non si poteva assaggiare il vino 
        prima della festa dei Vinalia che cadeva a Roma il 23 aprile.
 Il contadino con un apposito falcetto staccava i grappoli maturi e selezionava 
        i migliori. I grappoli di scarto erano utilizzati per fare il vino degli 
        schiavi e dei soldati. Il mosto della prima spremitura (lixivium) 
        era servito come aperitivo con l’aggiunta di miele; il mosto ottenuto 
        dalla pigiatura vera e propria era filtrato e versato in grandi recipienti 
        di terracotta (dolia) per la fermentazione.
 
 
 
          Le vinacce venivano passate al torchio e fornivano un mosto tannico con 
        cui si produceva vino scadente. 
            |  Cella vinaria nel portico con dolia interrati per la conservazione del vino. Pompei (NA).
 |  Torchio a vite. Pompei (NA).
 |  Il torchio era di due tipi: a leva o a vite. Nelle grandi fattorie era 
        collocato in un locale apposito, detto torcularium. I due tipi 
        vennero utilizzati sino ai giorni nostri.
 I primi vini romani erano scadenti. I vini pregiati venivano importati 
        dalla Grecia. I romani prediligevano il vino lungamente invecchiato, amaro, 
        alcolico. Generalmente, a differenza dei celti, usavano diluire il vino 
        con acqua, mentre il vino puro (merum) era riservato agli dei. 
        Si aveva vino rosso (vinum atrum) e bianco (vinum candidum). 
        Spesso si usavano “tagliare” vini diversi: un dolce vino greco 
        di Chio mitigava l’asprezza del pregiato Falerno della Campania. 
        I vini erano aromatizzati (aromatites con spezie quali cannella, mirra, 
        canna o zafferano). Ancora oggi in Grecia si utilizza la resina. Il vino 
        fatto con uva “passa”, chiamato passum (il nostro “passito”), 
        era in genere utilizzato come medicinale. Con il mulsum (termine 
        di etimologia incerta), miscela di miele e vino, si aprivano i banchetti.
 
 
          In età repubblicana (IV-I sec. a.C.) il vino era proibito alle 
        donne e agli uomini che non avevano ancora compiuto i trent’anni. 
        In epoca imperiale (I-IV sec. d.C.) il vino divenne la bevanda più 
        amata che concludeva tutte le cene. Il re del banchetto (magister bibendi) 
        era colui che stabiliva le proporzioni tra acqua e vino prima di mescerlo 
        ed era da lui che dipendeva il livello di ubriachezza degli ospiti. 
            |  Rilievo con satiri che pigiano l'uva. II secolo d.C. Venezia. Museo Archeologico.
 |  Il vino era conservato per il trasporto in anfore sigillate. Le anfore 
        spesso erano “bollate”, imprimendo con punzoni sull’argilla 
        ancora fresca indicazioni sul luogo di produzione, sull’annata “consolare”, 
        sul nome del vino e sul produttore del contenuto. Così oggi possiamo 
        ricostruire le rotte commerciali seguite nell’antichità. 
        Talvolta ciò, con ulteriori indicazioni, veniva dipinto sul corpo 
        dell’anfora.
 
 Le anfore erano un “vuoto a perdere”: dopo che il vino (o 
        comunque il contenuto) era stato travasato in contenitori più piccoli 
        (ad esempio il lagynos, vaso in terracotta con un solo manico), 
        erano gettate via. Il “Testaccio”, XX rione di Roma prende 
        il nome dal cosiddetto monte Testaccio, o monte dei cocci (in latino il 
        coccio era detto testa, da cui mons Testaceus), accumulatisi 
        nei secoli come residuo dei trasporti che facevano capo al porto di Ripa 
        grande sul Tevere. Il numero delle anfore in frammenti accatastate si 
        stima attorno ai 25 milioni.Talvolta le anfore segate erano utilizzate 
        come bare per i defunti, specialmente per i bambini.
 
 
 
           
            |  Rilievo marmoreo funerario (240-280 d.C.)
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            |  Particolare della parte centrale
 |  Particolare
 |  “Nunc vino pellite curas”
 Ora cacciate col vino gli affanni
 
 Orazio, Odi I,7,31
 
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